Giovanni Rosini (parte prima)

Giovanni Rosini, romanziere, linguista, poeta, polemista, storico dell’arte, storico della letteratura, editore, fu personaggio di grande successo finché fu in vita, vero animatore dei salotti culturali pisani e protagonista della vita culturale dell’Italia intera. Ebbe stretti rapporti epistolari con molti dei principali rappresentanti della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento, Monti e Leopardi in testa.
La sua fama scomparve con lui. Oggi, anche nelle più poderose storie della letteratura, a lui vengono dedicate poche righe, in genere in quel settore dove, di sfuggita, si citano i nomi di quegli autori che si è soliti raggruppare sotto la generica etichetta di “manzoniani”. E pensare che il buon Rosini si impegnò in una notevole polemica, una delle tante che intraprese in vita sua, proprio col Manzoni, perché riteneva di aver scritto un romanzo nettamente superiore, sia dal punto di vista artistico che da quello linguistico, a quello del Manzoni. Non si riteneva un “manzoniano”, piuttosto riteneva il Manzoni un “rosiniano”. E il successo internazionale del suo più famoso romanzo, La signora di Monza, che fu tradotto oltre confine prima dei Promessi Sposi, sembrò pure dargli ragione.
Probabilmente fu proprio questa tendenza polemica a nuocergli presso i posteri, quando la storia fece giustizia sulle reali qualità artistiche delle due opere e relegò il Rosini tra gli autori a malapena citati. Qualche tentativo di rivalutazione, soprattutto locale, non ha avuto gli esiti sperati. Tuttavia, se c’è ben poco da rivalutare nel Rosini romanziere, appare anche un po’ ingiusto non tenere presenti le molteplici attività e gli svariati campi di interesse che ne animarono l’attività, non limitati solo alla letteratura. Un esempio importante, la sua attività di tipografo-editore, non certo di importanza trascurabile, e di qualità nettamente superiore alla media italiana dell’epoca. Fu pur sempre l’editore dell’Anatomia del Mascagni e della Pomona Italiana.
A Lucignano, paese della Valdichiana dove nacque nel 1776 da Bartolomeo Rosini a da Maria Torelli, è considerato una gloria locale. Gli furono dedicati il teatro, una delle vie principali, la banda musicale.
In quel paese il R. ci rimase però solo 18 mesi, perché poi la famiglia si trasferì a Livorno, dove visse fino a 12 anni, e poi a Pontassieve. Fu in quel periodo che studiò al Seminario di Fiesole. Nel 1792 lesse alcuni suoi versi a Lorenzo Pignotti, che lo prese sotto al sua protezione incoraggiandolo a continuare l’attività poetica. Nello stesso anno iniziò a frequentare giurisprudenza all’Università di Pisa. Risale al 1794 il suo primo componimento pubblicato, l’ Ode al celebre Angelo Mazza. Si laureò in legge nel 1796.

Fu nel 1798 che iniziò la sua attività come editore. In società con Tito Manzi e Antonio Peverata acquistò la tipografia domestica di Monsignor Angelo Fabroni, provveditore dello studio pisano. La società in accomandita Antonio Peverata e compagni (1798-1800), divenne poi la Società Letteraria ( 1800-1804) e pubblicò importanti edizioni di Foscolo, Monti, Cesarotti.

 

La ditta prese poi il nome di Molini, Landi e Comp. (1804- 1813) e conobbe il suo momento di maggior prosperità, con sedi anche a Firenze e Venezia, arrivando ad impiegare 7 torchi e 18 operai. Successivamente divenne Niccolò Capurro (1813-1815), tranne un breve intermezzo in cui si chiamò Capurro e CC. Pubblicò con questo nome collane di scrittori italiani non compresi nella collana milanese dei Classici, Dante in edizione filologica, e l’opera omnia del Tasso, nel momento in cui il R. pubblicava vari saggi sullo stesso, dai quali derivarono  le consuete polemiche.  Pubblicò anche opere monumentali, la più famosa delle quali fu l’Anatomia del Mascagni.
Nel 1804 il R. aveva ottenuto la cattedra di eloquenza a Pisa, incarico che lo costrinse ad abbandonare la direzione della stamperia, anche se rimase socio attivo. Nello stesso periodo si era sposato con la fiorentina Anna Becciani, dalla quale ebbe due figli, Ippolito e Teresa, tenuti a battesimo dal Pindemonte e dal Monti.
Nel 1812, come accademico corrispondente della Crusca, fu a Parigi, dove, dopo la visita al Louvre, ebbe l’idea di scrivere e pubblicare la imponente Storia della pittura italiana, stampata da lui stesso tra il 1839 e il 1842, con un capitolo aggiunto nel 1847. Nel 1832 fu ammesso tra la nobiltà pisana, e si dedicò alla produzione di numerosi scritti d’occasione. Fu nel 1835 che cominciò a pubblicare la raccolta delle sue opere, giunta nel 1835 all’undicesimo volume.
Morì nel 1855.
(segue)

 


 

Una polemica tra ebanisti nella Livorno di inizio ‘800

Signor Regli pregiatissimo!
Era mia intenzione, per vero dire, serbar silenzio sopra un argomento che mi fruttò giorni tristi;  ma leggendo… più volte che il signor Andrea Gambassini di Livorno si dice autore di un modello in legno del S. Pietro di Roma, mentre non è stato che un socio committente, prego S. V. a pubblicare quanto segue in proposito.
Qualunque sia il merito di quest’opera, devesi però render pubblico che il Gambassini non fu mai né pittore, né scultore, né architetto, né mai varcò la soglia dell’eterna città. Egli è discreto tornitore in legno e in ottone, e tanto le fabbriche Pisane, quanto il San Pietro esposti già a Milano e quindi a Torino, si devono di concetto e di opera al signor Ferdinando Magagnini e a vari altri giovani che li hanno eseguiti dietro i disegni fatti dall’architetto Mercantelli, e ad istanza del signor Giuseppe Bardini, che a meraviglia nel secondo ha dipinto i quadretti, avendo sculte le statue il fu Pietro Berni; perciò son questi e non il Gambassini quelli che fanno onore alla loro patria, a Livorno.
Abbandonata l’impresa del modello di S. Pietro dal Magagnini, sia per promessa di premio e di società dal lato del Gambassini, sia per poca cognizione della fabbrica, fu continuata quest’opera, diretta, rimediata (molti essendone ancora i difetti) dal sottoscritto bastantemente conoscitore del Vaticano ed istruttore del Magagnini stesso fino da Roma, e compiuta nell’aprile del 1838; fatti notissimi alla città di Livorno, ove si eseguiva, ed i cui cittadini più e più volte hanno veduto il sedicente autore occuparsi con indefesso studio intorno alle casse che dovevano racchiuderla…
                          Pietra Santa, li 30 agosto 1840, devotissimo servo Vincenzo Santini
(da: Il Pirata, giornale di letteratura, varietà e teatri; martedì 13 ottobre 1840. Milano, Rusconi editore)

Ferdinando Magagnini (1801-1874), ebanista e architetto livornese, è noto soprattutto pe ril suo importante contributo alla realizzazione del Palazzo de Larderel, sede oggi del tribunale civile. Si formò presso la bottega dell’ebanista Andrea Gambassini, ma seguì anche i corsi di disegno di Pietro Cini e le lezioni di Gaetano Gherardi, insegnante della scuola di Architettura e ornato. Il Gambassini ne comprese le qualità e nel 1830 gli commissionò l’esecuzione di un modella in scala di Piazza San Pietro e del Vaticano, da eseguirsi in legno e avorio. Il Magagnini e i suoi collaboratori si recarono anche a Roma per studiare il progetto dal vero. Il modello era quasi finito nel 1833, quando il Gambassini non solo licenziò il Magagnini, tenendo il plastico, ma lo completò (o lo fece completare) delle poche parti rimaste e lo spacciò per opera sua, esponendolo in vari luoghi e guadagnandosi pure un diploma di merito all’Accademia di Belle Arti di Firenze.
La polemica sul reale autore del modello divampò rapidamente in città, e comparvero articoli anche su periodici di altre località (Firenze, Milano). Nemmeno la morte dei protagonisti placò il dibattito, dato che nella tomba del Gambassini una scritta lo ricorda come l’autore del modello. Altri personaggi, poi, si inserirono nel dibattito, compreso  Vincenzo Santini da Pietra Santa, che rivendica, nell’articolo riportato sopra, anche con una certa malizia,  un ruolo affatto marginale nell’esecuzione del progetto.
C’è da dire che il licenziamento dal Gambassini in fondo giovò al Magagnini, che ebbe un’ottima carriera e ricevette importanti commissioni dalla famiglia  de Larderel, almeno fino a che non cadde in disgrazia. Morì suicida nel 1874.
Nella polemica si inserì anche il suo amico Niccola Ulacacci, nato in Corsica nel 1805, ma giunto a Livorno poco dopo il 1818. Persona erudita, pittore di professione, ma senza particolari qualità artistiche, tanto da esser definito “più dotto nella storia dell’arte, che pratico nell’eseguirne le bellezze”. Fu amico del Magagnini fin dal 1829, e lo seguì nel viaggio di ispezione a San Pietro.
Il Magagnini  aveva a suo tempo pubblicato un libretto polemico, dal titolo Cose di questo mondo!, per rivendicare la paternità artistica del modello di San Pietro. Una seconda edizione dello stesso, nel 1874, anno della sua morte, vedeva anche l’aggiunta delle parole scritte a suo favore da Ulacacci in un libretto del 1836.
Del modello del San Pietro non è rimasta traccia…

Scheda Bibliografica:

Magagnini Ferdinando, Ulacacci Niccola
Cose di questo mondo ! Seconda Edizione con aggiunte
Livorno, Tip. G. Fabbreschi e C., 1874
In 8°; pagine 51, brossura editoriale verde con titoli stampati entro cornice tipografica alla coperta superiore.

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Roma liberata

Canto l’armi pietose e il Maresciallo
Che a Pietro confiscò scettro e predella.
Molto a piedi egli oprò, molto a cavallo
Niente sofferse in questa parte o in quella,
Pur fece, ad ogni modo, un grande acquisto
Mandando a spasso il successor di Cristo!

Nel 1877 veniva pubblicato a Salerno un volumetto in 16°, dal titolo Roma liberata, dove l’autore rievocava la recente presa di Roma facendo il verso alla Gerusalemme Liberata. Col Maresciallo Cadorna al posto di Goffredo di Buglione. Dieci canti in 155 pagine, con momenti spassosi, ma anche di satira feroce, che stupisce per l’audacia.
L’autore, Nicola (si firmava però Nicolino) Beniamino Marmo, era un poeta e giornalista nato a San Rufo (Circondario di Sala Consilina) nel 1838. Figlio di Daniele e della nobildonna Teresa Celio da Teggiano, famosa latinista, visse quasi sempre tra San Rufo, dove il cognome Marmo è ancora piuttosto diffuso,  Teggiano, paese della madre, e Salerno.  Molto noto localmente, non abbiamo trovato traccia di lui in qualche storia della letteratura, nemmeno tra i poeti dialettali, ai quali pure appartenne avendo scritto versi in dialetto locale. Per breve tempo fu collaboratore de Il secolo di Milano, ma la città non faceva per lui, che tornò presto a San Rufo e al sole del Meridione. Collaborò a giornali locali satirici e di breve vita, come Il Pomo di Adamo, Il Figaro, Don Paolino.
Sebbene pubblicata nel 1877, l’autore afferma che Roma liberata era già opera scritta pochi mesi dopo i fatti narrati. E c’è da dire che la satira pungente, senza remore o paure di censura, stupisce, soprattutto quando il Marmo si allontana dai fatti narrati per concentrarsi sulla politica del nuovo Stato e sui rapporti col meridione.

Ecco, amici miei, Montecitorio
Covo di camorristi e di falsari

Ministri Deputati e Senatori
Un gregge di corrotti e corruttori.

La censura, che pure colpì altri in maniera inesorabile, non raggiunse mai il pometto del Marmo. Forse gli giovò un tiratura limitata ed una diffusione locale.

In tempi men leggiadri e più feroci
Si appendevano i ladri sulle croci
In tempi men feroci e più leggiadri
Si appuntano le croci in petto ai ladri

Fatto sta che il poeta non ebbe inconvenienti, e morì all’età di soli 66 anni (1904) nella sua San Rufo, dove è celebrato come gloria locale. Apprendiamo però, dalla sua biografia, che alcuni missionari di passaggio dopo la sua morte lessero le sue carte e i suoi appunti, e consigliarono vivamente agli eredi di bruciare tutto per non avere guai.
In edizione originale il volumetto è davvero molto raro. Non deve certo la sua importanza a particolari qualità tipografiche, che sono piuttosto modeste, ma a quel testo, ancora oggi conosciuto, ristampato e citato localmente, in cui l’autore, con una visione dei rapporti tra Nord e Sud molto diversa da quella tramandata dalla retorica risorgimentale, si permetteva di dire, proprio nel momento in cui il nuovo stato si impegnava in campagne militari contro il brigantaggio in meridione:

Hanno spremuto il sangue dalle pietre
E gli onesti son essi, e noi siam ladri
Mazzate sulla schiena e corna in fronte
Questo ci ha fatto il piccolo Piemonte


Scheda bibliografica:
 Marmo Nicolino (Marmo Nicola Beniamino).
Roma Liberata. Poema Satirico-Giocoso
Stabilimento Tipografico Nazionale, Salerno 1877.
Volume in 16°; pagine 155. Prima edizione; brossura editoriale.

 

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La Sicilia post-unitaria negli scritti di Vincenzo Mortillaro

Nel 1968, all’indomani del terremoto del Belice,in una cassa conservata in un antico palazzo di Montevago furono casualmente scoperte carte catastali borboniche datate 1837-1853, redatte scrupolosamente sulla base del Real Decreto per la rettifica del Catasto del 1833. In tutto 427 carte, di qualità varia. I Borboni avevano affidato l’incarico di completare la complessa opera, il cui scopo era di ricalcolare in modo più equo i dazi catastali, a Vincenzo Mortillaro, nominato Delegato speciale per la compilazione dei catasti. Le carte si ritenevano perdute per sempre, come del resto gran parte dell’archivio personale del Mortillaro, che comprendeva la corrispondenza con illustri personaggi dell’epoca,  smembrato e venduto in aste  internazionali. Il terremoto le riportò alla luce in un palazzo di proprietà degli eredi, dimenticate da tempo. Nel 1997 furono acquisite dalla Regione. Carte di qualità varia, si è detto, ma che dimostrano l’efficienza e la solerzia del Mortillaro come funzionario pubblico,  e la modernità della sua visione della burocrazia.
Vincenzo Mortillaro (Palermo 1806 – 1888) fu un personaggio particolare. Non gli giovò l’immagine di oltranzista clericale, cospiratore indipendentista filoborbonico che gravò su di lui dopo l’Unità d’Italia, e che lo condusse anche al carcere (ma pure alla benedizione papale), nonostante isolati tentativi di riqualificarne la figura politica. Non è raro che ancor oggi il suo nome nemmeno compaia in pur ponderosi dizionari enciclopedici. Non compare, del resto, nemmeno nei quattro volumi del Dizionario del Risorgimento Nazionale, dove pure figurano personaggi di ben minore importanza. Certo, è curioso il fatto che il Mortillaro, indipendentista convinto, sia stato politico più che moderato sotto i Borboni, tanto moderato da sfuggire alle persecuzioni durante la restaurazione dopo i moti indipendentisti, e abbia invece conosciuto il carcere come cospiratore terrorista dopo l’Unità.
Presso i bibliofili, soprattutto tra gli appassionati di cose locali meridionali, il Mortillaro è sicuramente noto, sia come storico che come bibliografo. I suoi interessi culturali furono molteplici. Lessicografo, ottimo arabista, memorialista, bibliografo, storico. Fu anche sacerdote per breve tempo, poi abbandonò l’abito per seguire lezioni di astronomia. Gran parte dei suoi interessi furono legati alla sua terra. Due sono le sue opere più note. La prima è il Nuovo dizionario siciliano-italiano (1838-1844), che sostituiva il precedente Dizionario siciliano italiano latino (1751-54) del gesuita Michele del Bono. Il lavoro del Mortillaro comparve in un momento di grande interesse per i dialetti. A partire dalla seconda metà del settecento erano comparsi vocabolari bresciani, napoletani, milanesi, romani, dove il dialetto locale e la lingua italiana, intesa come lingua toscana, erano messi a confronto. Il successo del dizionario del Mortillaro è dimostrato dalle tre edizioni successive, fino a che, nel 1868, dovette subire la concorrenza del Nuovo Vocabolario siciliano italiano di Antonino Traina. Altra opera molto nota del Mortillaro fu la Guida per Palermo e pei suoi dintorni (1829) che ebbe almeno cinque edizioni, fu tradotta in francese e, insieme al dizionario, contribuì alla sua nomina a membro di numerose accademie italiane e francesi.
Il Mortillaro però scrisse moltissimo. Aveva 20 anni e già pubblicava saggi di bibliografia e di storia locale siciliana. Lui stesso raccolse minuziosamente quanto aveva pubblicato in 22 volumi di Opere.  Grande importanza viene data oggi a quanto scrisse dopo l’Unità perché i suoi testi, comunque la si pensi sulle idee politiche della persona e sulla sua visione storica della Sicilia (è nota la sua astiosa polemica con l’Amari) sono ritenute preziose fonti di informazioni sulla vita quotidiana nella Sicilia post-unitaria. Siamo perciò lieti di presentare, in catalogo, alcune opere meno note di quel periodo, e una celebre biografia scritta dal nipote allo scopo di rivalutarne la figura.
Sulla biografia del M. e sulla sua attività come bibliografo e bibliotecario vedi anche la voce nel nostro dizionario 


Elvira Mancuso e la situazione della donna nella Sicilia post-unitaria

Di Elvira Mancuso non c’è traccia in molte storie della letteratura italiana. E’ vero che non scrisse molto: qualche novella, qualche libro di poesie, un romanzo, un pamphlet sulla situazione della donna. Tuttavia, negli anni Ottanta del secolo passato Italo Calvino si impegnò perché la Einaudi recuperasse e pubblicasse il suo unico romanzo, Annuzza  la maestrina, con la prefazione di Leonardo Sciascia. L’impresa non riuscì, e il romanzo fu poi ristampato da Sellerio nel 1990 col curioso titolo di Annuzza.. vecchia storia inverosimile.
Eppure, si tratta di scrittrice oggi ritenuta fondamentale nella storia della letteratura femminile italiana.
Nacque nel 1867 a Caltanissetta (a Pietraperzia, secondo altre fonti) e morì nel 1958 dopo aver sempre vissuto in quell’entroterra siciliano dove non doveva essere facile seguire gli ideali di emancipazione femminile che caratterizzarono la sua vita. Era di famiglia alto-borghese, figlia di un famoso avvocato penalista. Fu nubile per scelta e la sua famiglia, che pure l’aveva incoraggiata a studiare, si oppose alla sua scelta di iscriversi all’Università, ritenendola una forzatura al costume dell’epoca. Laureatasi a Palermo, si dedicò all’insegnamento nelle scuole elementari, attività che continuò fino al 1935, fortemente convinta che l’istruzione offrisse alle ragazze l’unica speranza di emancipazione e affrancamento da un ruolo che nella cultura isolana (ma anche in quella italiana in generale) sembrava, per le donne, deciso fin dalla nascita.
Esordì come scrittrice nel 1898, sulle pagine della rivista Cornelia, fondata da Angelo De Gubernatis, con la novella Storia Vera.  Si firmava con gli pseudonimi Lucia Vermanos e Ruggero Torres, e solo dopo molti anni uscì un articolo col suo vero nome.
Nel 1906 (stesso anno di pubblicazione di Una donna, di Sibilla Aleramo) uscì, stampato a sue spese, il suo unico romanzo Annuzza la maestrina. E’ un’opera di stampo verista, fortemente autobiografica, all’epoca accolta tiepidamente, ma riscoperta negli anni Ottanta e oggi stampata anche in inglese e spagnolo.
E’ la storia di Annuzza Milazzo, nata a Pietraperzia da famiglia modesta, determinata a diventare maestra combattendo contro tutti i pregiudizi che mortificano il ruolo della donna.
L’anno successivo, il 1907, la Mancuso pubblica un pamphlet intitolato Sulla condizione della donna borghese in Sicilia: appunti e riflessioni, da noi proposto nella nostra collezione di opuscoli. Si tratta, in pratica, del manifesto ideologico di quanto espresso, in forma narrativa, nel romanzo.
Da tutte le conquiste della borghesia, la donna non ha ricevuto che il magro conforto di servire un padrone più libero, più potente, più lieto di vivere.. Il sacrificio continuo dei suoi diritti, della sua personalità, le sembrano cose fatali e necessarie, ordinate dalla natura e da Dio
Elemento fondamentale del suo pensiero è l’accesso all’istruzione delle donne. La scuola ha il compito di renderle consapevoli della propria autonomia Un testo che anticipa di più di 50 anni il movimento femminista, e che, all’epoca, fu condannato all’isolamento e all’oblio.
Durante l’epoca del fascismo non risulta che la Mancuso abbia scritto nulla. Si dedicò esclusivamente, fino al 1935, alla sua attività di maestra elementare.


Scheda Bibliografica
Mancuso Elvira
Sulla condizione della Donna Borghese in Sicilia, appunti e riflessioni
Caltanissetta, Tip. Dell’Omnibus F.lli Arnone, 1907
Opuscolo in 8°(13,5 x 20); pagine 12. Brossura editoriale a stampa.


 

Samuel Butler, Pietro Sugameli, e l’autrice trapanese dell’Odissea

Qualcuno ha scritto che per descrivere lo spirito particolare di Samuel Butler basterebbe ricordare che forse fu l’unico inglese a non essere iscritto a un qualche club. Nato a Lungar nel 1835,  si laureò a Cambridge e non seguì la carriera del padre, pastore anglicano. Abbandonò la famiglia e andò ad allevare pecore in Nuova Zelanda. tornò in patria nel 1864 per dedicarsi alla pittura , che abbandonò presto a favore della letteratura. Fu quel che si definisce un “poligrafo”: scrisse romanzi, saggi scientifici, impressioni di viaggio. Nei romanzi si impegnava a ridicolizzare i costumi dell’età vittoriana, nei saggi scientifici contestava le teorie di Darwin e l’ottimismo positivista. Morì nel 1902, e solo l’anno dopo la sua morte su pubblicò la sua opera più nota: Così muore la carne, amaro e spietato sguardo sul bigottismo delle famiglie inglesi che influenzò, tra gli altri, anche G. B. Shaw.
Butler conosceva bene l’Italia e la Sicilia. Nel 1881 aveva pubblicato un famoso libro di impressioni di viaggio in Piemonte: Alps and Sanctuaries of Piedmont and Ticino.
Conosceva bene anche la lingua greca antica e, insoddisfatto delle traduzioni allora in uso, decise di tradurre di persona l’Iliade e l’Odissea. Per sua ammissione, erano almeno 35 anni che non praticava più il greco, in pratica dai tempi della scuola. Ma, evidentemente, allora erano altre scuole. Rimase subito perplesso di fronte alle differenze stilistiche, di linguaggio e di ispirazione tra i due poemi. Maturò così l’idea che l’Odissea non fosse opera di Omero, ma di una poetessa, Nausica, figlia del re Alcinoo di Scheria, l’attuale Trapani.
L’idea di una origine siciliana dell’Odissea non era nuova, perché già affermata da Strabone e da altri autori antichi. Ma Butler si spinse molto oltre. Visitò la Sicilia la prima volta nel 1892, insieme all’amico, biografo, e amante Henry Festing Jones, per identificare i luoghi descritti nell’Odissea. Riconobbe perfino Itaca nell’Isola di Marettimo. Il risultato delle sue ricerche fu pubblicato nel 1897 in un’opera dal titolo L’Autrice dell’Odissea. Il successo non fu proprio esaltante e la comunità scientifica rimase piuttosto fredda di fronte all’ipotesi. Pure a Trapani ci fu qualche polemica.
Tuttavia, quando Butler si era recato in Sicilia nel 1892, aveva trovato anche ferventi sostenitori delle sue ipotesi. Il fan più accanito fu un certo Pietro Sugameli, che nello stesso 1892 pubblicò un raro libretto che possiamo proporre nel nostro sito in edizione originale.  Sembra che la dizione corretta del cognome dell’Autore fosse Sucameli, stando almeno a quanto risulta dai registri delle scuole frequentate. Nato a Paceco nel 1848 da una famiglia di umili agricoltori, fu perso a benvolere da Domenico Buscaino, agiato possidente che lo avviò agli studi, prima in forma privata, poi al Ginnasio di Trapani, dove il Sugameli apprese il greco con buoni risultati. Quando il Buscaino morì, lo lasciò erede di tutto, non senza qualche strascico legale con i parenti. Il Sugameli poté così permettersi una vita discretamente agiata, frequentando l’ambiente borghese locale e dedicandosi anche alla politica.  Aveva 44 anni quando incontrò il Butler nell’agosto del 1892.
Le teorie dell’autore inglese, però, erano già note a Trapani prima del suo arrivo. Butler aveva scritto (in italiano) una lettera al sindaco di Trapani  in gennaio, chiedendo informazioni circa i nomi di alcuni scogli, ed eventuali leggende popolari correlate. A febbraio, poi, erano comparsi articoli in riviste scientifiche dove il Butler già esprimeva i principali elementi della sua teoria.  Quando, in agosto, giunse a Trapani, le sue teorie erano già ampiamente note e discusse in città e in molti avevano ricominciato a leggere l’Odissea. Questo spiega anche i tempi brevi della pubblicazione del volumetto del Sugameli: conosce Butler in agosto e il lavoro è già in stampa a novembre. Evidentemente era stato in gran parte concepito già prima dell’arrivo dell’autore inglese, sulla base degli articoli pubblicati dallo stesso nei primi mesi dell’anno.
Le cronache dell’epoca riferiscono di un Sugameli che, dapprima piuttosto scettico, sarebbe poi diventato più “butleriano” di Butler, col quale ebbe anche qualche contrasto a proposito della interpretazione corretta di alcuni passaggi omerici.
Nell’opuscolo il S. vuole chiarire proprio un punto che lo vedeva in contrasto con l’inglese. Vuol dimostrare che Trapani, ai tempi dell’Odissea, era un’isola, come Scheria nel poema. Butler era molto irritato da questa interpretazione, perché riteneva che la traduzione corretta vedesse Scheria come una penisola, il che avrebbe escluso proprio Trapani se fosse stata un’isola. Butler, per inciso, riteneva di essere grecista infallibile e non sopportava correzioni in questo senso.
Gran parte del libretto del S.  è dedicata alla ricerca di corrispondenze topografiche tra Trapani i luoghi dell’Odissea.  Corrispondenze che -potenza del campanilismo?-riuscì a trovare un po’ dovunque.  Butler, che non aveva gradito nemmeno la pubblicazione dell’opuscolo (il suo lavoro definitivo sarebbe comparso solo cinque anni dopo), lo corresse in alcuni articoli pubblicati su riviste italiane. I due restarono però in buoni rapporti. Ancora nel 1896, durante l’ultimo viaggio di Butler in Sicilia, si incontrarono per visitare insieme luoghi “omerici” dei paraggi.
Delle ipotesi di Butler e Sugameli non resta molto, anche se a intervalli regolari vengono rispolverate e riproposte in tentativi più campanilistici che scientifici.  Nessuno dei due autori, del resto, era un vero filologo. Il lavoro del Sugameli resta però ancora apprezzabile soprattutto per la sua volontà di proporre idee non succubi a quelle del ben più illustre Butler, e per la riscoperta della storia trapanese e dell’importanza, nell’Ottocento affatto scontata, riconosciuta al ruolo dei Fenici (altra cosa che irritò Butler)
Bibliografia:
http://www.trapaninostra.it/libri/La_Koine_della_Collina/Paceco_03/Paceco_03-03.pdf


Scheda Bibliografica:
Sugameli Pietro
Origine trapanese dell’Odissea secondo Samuel Butler. Dimostrazione critica di Pietro Sugameli .
Trapani, Tip. Fratelli Messina& C., 1892
In 8°(14,5 x 21,5); pagine 66. Brossura editoriale a stampa, nota omaggio dell’autore alla copertina.


 

Pascoli latino: una rarità bibliografica

Caro Severino, rompo il lungo silenzio… per darti una mia buona notizia. Avendo mandato al concorso di poesia latina dell’Academia Regia disciplinarum Nederlandica un poemation scritto in fretta e furia per le feste del Ceppo, ieri ricevei un telegramma da Amsterdam così: Veianus (è il titolo del poemation) remporta prix Hoeufft… Io ne ho preso un coraggio da leone!
Così il Pascoli scriveva, da Livorno, a Severino Ferrari nel 1892. Quella vittoria al concorso di Amsterdam non sarebbe rimasta isolata. Il poeta avrebbe vinto quel concorso dodici volte, l’ultima nel 1912, anno della morte.
Le qualità del Pascoli latino erano note ai suoi contemporanei. Lo stesso Carducci, che pure aveva qualche riserva sul Pascoli italiano, prediligeva apertamente le sue poesie latine. Il lento decollo della fama poetica di Giovanni Pascoli, stretto nella morsa di Carducci e D’Annunzio, fu dovuto proprio alla sua fama di poeta latino. Fin dai primi successi egli ebbe la volontà di realizzare una raccolta completa di poesie latine, da pubblicarsi però solo dopo aver dato completezza al progetto. La raccolta sarebbe tuttavia comparsa solo postuma, pubblicata nel 1914 da Zanichelli (ultima grande fatica editoriale di Giuseppe Zanichelli), col titolo Carmina, in 500 copie numerate. Le illustrazioni, sessanta, erano di Adolfo de Carolis. L’opera però circolò solo nel 1917, a causa della guerra.
“A tutti è noto che Giovanni Pascoli fu poeta grande e potentemente originale in italiano e in latino… ma a pochissimi eran noti sin qui anche quei carmi latini già editi da lui, che pur gli diedero tanta fama. I ventuno poemetti che già videro la luce nelle edizioni di Amsterdam… erano dal poeta diffusi a malincuore e soltanto tra pochi amici… possiamo perciò affermare con verità che questo volume è la prima edizione dei carmi latini di Giovanni Pascoli, contenendo poemetti e liriche o noti a pochi in edizioni d’occasione e rare, o inediti” (dalla prefazione dell’editore)
La cura dell’edizione fu affidata a Ermenegildo Pistelli, che era tra i pochi amici che conoscevano le poesie latine del Pascoli.
La qualità della poesia latina pascoliana è ormai fuori discussione. I Carmina non sono esercizi stilistici, o divertimenti colti di un latinista, sono vere e proprie poesie pascoliane. “Lungi dall’essere un prezioso gioco umanistico” rispondono “a una vitale esigenza dell’ispirazione pascoliana” (Alfonso Traini). I procedimenti simbolisti propri del Pascoli italiano sono evidenti anche in quello latino e alcuni, forse esagerando, hanno visto in questi lavori il passaggio definitivo del poeta al decadentismo vero e proprio.
“Il latino, in altre parole, non è per il poeta un linguaggio autre, ma una lingua base capace di enucleare un linguaggio personale, un linguaggio ad hoc, da ritrovare e se mai sviluppare nell’italiano che a lui sembrava di per sé tanto più rigido e obbligante. (M. Luzi)
Per quanto rigurda  le edizioni precedenti a quella del 1914,  quelle definite “rare e d’occasione” e note solo a pochi amici, abbiamo qui la fortuna di poter far chiarezza su una di queste rarità bibliografiche
L’archivio pascoliano di Castelvecchio conserva tra le sue carte una minuta incompleta di una serie di poesie raccolte sotto il titolo di Iani Nemorini Silvula. Due poesie complete, manoscritte, ed un framento di una terza.  Lo stesso archivio conserva anche altri abbozzi della stessa raccolta ed un nuptialia del 1911, per nozze Mosca- Meyer, dove una di quelle poesie, dedicata a Domenico Mosca, fu pubblicata.
L’intera raccolta Iani Nemorini Silvula,  dedicata a Ermenegildo Pistelli, fu pubblicata nei Carmina zanichelliani, dove lo stesso Pistelli  avvisava che la raccolta era già stata date alle stampe nel 1894, anno a cui risalivano anche le versioni definitive dei componimenti, in un’edizione da lui stesso curata. Di questa edizione, però, si sapeva poco o nulla se anche l’archivio pascoliano si limita a riportare l’anno e le dichiarazioni dello stesso Pistelli. In alcune occasioni, insieme all’anno di stampa, si aggiunge anche un significativo punto interrogativo (1894?), ad indicare che non c’è certezza della cosa.
Possiamo avere adesso più certezze, grazie all’opuscolo in nostro possesso. Il Pistelli aveva effettivamento pubblicato quella raccolta in un opuscolo d’occasione, come omaggio per le Nozze Fuochi – Turris, e aveva scritto una ironica premessa, dedicata allo sposo.  Mio caro Mario, Né tu né la tua Annita per esser felici oggi e, come io ti auguro, sempre, avete bisogno di epitalamii o di pubblicazioni erudite. Pure… mi dispiaceva che in una occasione così solenne per te e lieta anche per quanti ti vogliamo bene, tu non ricevessi pubblicamente qualche segno d’affetto da me… Ma assai probabilmente il mio desiderio sarebbe rimasto un desiderio se un amico -non dico illustre, perché egli non vuole- carissimo e gentilissimo, quasi sapendo del mio imbarazzo, non mi avesse inaspettatamente soccorso.  Giovanni Pascoli ha stralciato da un suo codicetto prezioso una sua siluula e me l’ha mandata in regalo, con licenza di usarne a mio piacere. […] Da me non avresti avuto nulla : al più qualche lettera inedita d’uno dei soliti, o forse – inorridisci – qualche varia lectio alle disquisizioni aritmetiche del mio dolce Giamblico. Ora invece hai dei versi, e quali versi ! Poiché, come sai, e come ormai sanno tutti (forse anche i Ministri della Pubblica Istruzione) il Pascoli è latinista vero e poeta vero ; e perciò a lui, che ne scrive di così splendidi italiani, è permesso di far versi anche in latino.
Seguono cinque componimenti dedicati a vari amici del poeta. A quanto affermò il Pistelli in seguito, il Pascoli non volle che in questa occasione pubblicasse dei versi che gli aveva inviato nel 1893 sul collegio di Urbino, ma gli aveva promesso “versi scritti apposta”.  La raccolta quindi fu scritta proprio per questa occasione, la qual cosa spiegherebbe la sicurezza del Pistelli nell’affermare che si trattava di composizioni realizzate  nello stesso 1894.

Scheda bibliografica:
Pascoli Giovanni, Pistelli Ermenegildo
Nozze Fuochi – Turris
Firenze Tipografia Calasanziana 1894
Rarissimo Nuptialia in 8°piccolo(20,5 x 14); pagine 12. Brossura con titolo nuptialia in copertina entro  cornice tipografica. Cinque odi-dedica che furono composte da Giovanni Pascoli e poi passate a Ermenegildo Pistelli perché fossero stampate nell’aprile 1894 in questo opuscolo per Nozze Fuochi-Turris, sotto il titolo complessivo “Iani Nemorini silvula ad Hermenegildum Pistelli”, e portano le dediche, nell’ordine :  ad H. P., ad D. Mosca, ad A. Romizi, ad F. Martini, ad H. Vitelli.

 

Bibliografia:
Luigi Baldacci. Introduzione a: Poesie di Giovanni Pascoli. Garzanti, I Grandi Libri, 1974
Giuseppe Nava. Giovanni Pascoli in: Storia della letteratura italiana. 1999, Salerno editore.
Mario Luzi. Giovanni Pascoli, in Storia della letteratura italiana, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno. Vol. VIII. Garzanti, 1968
Ferrari Walter. Un carme latino del Pascoli, ad H. Vitelli. Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, Storia e Filosofia Serie II, Vol. 8,No. 2 (1939), pp. 169-176