Importante prima edizione di questo romanzo scritto da Lodovico Corfino (Verona 1497 – 1556)
Il romanzo del C., tramandato adespoto da un manoscritto della prima metà del sec. XVI, fu pubblicato, coi titolo di Istoria di Phileto veronese, nel 1899 da G. Biadego. Il racconto è condotto in forma autobiografica, e l’autore-protagonista si cela sotto il nome di Phileto; ma è egli stesso a svelare la sua identità quando si proclama fratello di Girolamo Corfino di Verona (Istoria di Phileto, p. 75): le anagrafi dell’epoca infatti attestano che il C. aveva un fratello a lui maggiore di cinque anni di nome Girolamo. L’azione del romanzo copre un arco di circa due anni, compreso, come si desume da alcuni riferimenti alle condizioni politiche di Verona presenti nel testo, tra il 1515 e il 1518. La narrazione si apre con l’innamoramento di Phileto, disperato a cagione della recente morte del fratello maggiore, per una fanciulla veronese, Euphrosine B. Il protagonista riesce a farsi strada nel cuore dell’amata, e ad ottenere dalla famiglia di lei il consenso a sposarla; ma, assalito per via da un pretendente deluso della donna, Eugenio Montano, è costretto ad ucciderlo per difendere la propria vita. Temendo le ritorsioni dei familiari dell’ucciso e i rigori della legge, Phileto fugge da Verona con un amico, Homopathe, e con lui peregrina lungamente, passando attraverso numerose avventure, per l’Italia, il Mediterraneo e l’Africa settentrionale. Finalmente, sbattuto da una tempesta sulle coste venete, fa ritorno a Verona, ove ritrova la fedele amata e si rappacifica con la famiglia Montano.
L’impostazione autobiografica dell’Istoria di Phileto e la coerenza di alcuni particolari del racconto con la realtà della Verona cinquecentesca (per esempio, l’attribuzione ai personaggi di cognomi storicamente attestati, come Montano) non devono indurre a sopravvalutare l’attendibilità del romanzo del C. come testimonianza di autentiche vicende dellavita dell’autore. A parte, infatti, l’esistenza nel tessuto narrativo dell’Istoria di Phileto di ampie zone di palese carattere fantastico, anche episodi che, per la loro apparenza verisimile e circostanziata, sembrerebbero poter riflettere effettive esperienze biografiche del C., come l’uccisione del rivale e il conseguente esilio dello scrittore da Verona, non trovano alcuna conferma nei documenti dell’epoca e lasciano perciò un largo margine di dubbio circa il loro fondamento reale; e persino fatti sicuramente storici vengono dall’autore riferiti senza rispetto della cronologia: la morte del fratello Girolamo, che l’anagrafe del 1518 registra ancora vivente, è presentata come anteriore all’inizio dell’azione del romanzo (1515 o 1516.). Non come documento biografico, sia pure letterariamente adomato, deve perciò essere letta l’Istoria di Phileto, ma essenzialmente come opera d’arte, nella quale l’autore ha fatto anche confluire, liberamente rielaborandole e trasfigurandole, alcune fondamentali esperienze della sua vita. Già la scelta dei nomi dei personaggi principali del racconto appare suggerita non tanto dal desiderio di renderne irriconoscibile la reale identità, quanto piuttosto dalla volontà di garantire alla vicenda narrata una validità eccedente quella di una semplice relazione autobiografica, e una dimensione esemplare: l’intenzione allusiva è dichiarata esplicitamente per il nome del protagonista (Istoria di Phileto, p. 9), ma è scoperta anche per quelli di Homopathe e di Euphrosine B., nella quale il Biadego riconobbe, probabilmente a ragione, la moglie del Corfino. Il carattere sostanzialmente letterario del romanzo risalta però con evidenza quando si consideri lo sviluppo dei due temi in esso dominanti, l’erotico e l’avventuroso, e l’impegno stilistico dello scrittore: sotto la pagina del C. si avverte la presenza di tutta una illustre tradizione lirica e narrativa e l’influsso, al di là di quello più immediato, ma meno importante – notato dallo Scolari – del Libro del Peregrino di J. Caviceo e della vita del Caviceo stesso di G. Anselmi, di autorevoli modelli. Lo stile dell’Istoria di Phileto risulta, con rispondenza alla varietà di motivi che il romanzo accoglie (ricostruzione delle diverse fasi dell’amore e degli stati d’animo degli innamorati; racconto di intrighi, rapimenti, naufragi), composito, ma sempre di notevole dignità letteraria, e ha i suoi esemplari nel Petrarca e nel Boccaccio. I differenti temi e toni appaiono però, più che compiutamente fusi, accostati gli uni agli altri; né risultano raccolti in piena armonia attorno al motivo conduttore del libro, l’amore e la nostalgia per la donna e per la patria, che soprattutto nelle pagine conclusive del racconto non è privo di accenti suggestivi.
L’Istoria di Phileto si può assegnare con sufficiente certezza, tenendo anche presente che l’autore nel proemio la dice opera dell’adolescenza, al decennio 1520-1530. Impossibile è invece datare le poesie note del C. (trentaquattro sonetti, una canzone, un madrigale), pubblicate in quattro volumi di rime di diversi autori, tra il 1551 e il 1556. Si può però supporre che esse siano sparse testimonianze di un’attività poetica estesasi per un ampio arco di tempo: numerose dovevano essere le rime del C., se il Valerini annunciava nel 1586 che presto ne sarebbero uscite in luce “molte” inedite (Le bellezze di Verona, p. 84). Ciò non avvenne; ma quanto conosciamo della produzione lirica del C. ci consente di ricostruire i tratti salienti della sua personalità poetica: certamente non di singolare rilievo, eppure storicamente interessante. Sottesa alla poesia del C. è la lezione del Canzoniere del Petrarca, seguita con un rigore che attesta la conoscenza e l’accettazione della poetica bembiana (e riecheggiamenti del Bembo lirico non mancano nel Corfino). Il modello petrarchesco non solo orienta in maniera determinante le scelte lessicali del C., la cui lingua è ben lontana da quella eterogenea della lirica cortigiana del sec. XV, ma suggerisce anche alla sua poesia temi, situazioni, soluzioni stilistiche e metriche. Sia che il C. tratteggi il ritratto dell’amata, come nel sonetto “Occhi sereni, occhi che ‘l cor m’avete” (Delle rime di diversi, 1553, p. 254); sia che descriva il suo solitario vagare, come nel sonetto “L’incolte piagge, e l’orride montagne” (Rime di diversi, 1556, p. 282); sia che mediti sulla caducità umana, come nel sonetto “Ahi come ratto se ne porta il sole” (ibid., p. 283), sempre mostra di aver presente il magistero del Petrarca. Poche liriche del C. si discostano dalla ripresa di motivi e di toni petrarcheschi: tra queste, il sonetto “Piova sangue, e dal ciel cada ogni stella” (ibid., p. 280), in cui la disperazione amorosa dell’autore si effonde con violenta drammaticità, e il sonetto “Chieggio perdono i’ fui poco cortese” (Dellerime di diversi, 1551, p. 164), nel quale uno spunto “realistico” (l’innamorato che colpisce con una palla di neve l’amata) viene collegato alle tradizionali metafore delle fiamme d’amore e del cuore di ghiaccio per produrre un esito arguto.
(Dal Dizionario Biografico degli Italiani)